Intervista "Lo psicologo in carcere"

(Vincent Van Gogh)

Di seguito, un'intervista su lo psicologo in carcere al Dott. Migliarini rilasciata nel 2017 in occasione di un elaborato di tesi da parte di un agente penitenziario del carcere di Massa in Toscana.

Da quanto tempo frequenti il carcere e se avevi un'idea diversa da come in realtà è il carcere.
Più o meno sono quasi una decina di anni che frequento gli spazi carcerari con diversi ruoli, ho avuto modo di operare nel carcere di Pisa come operatore e adesso, da quasi cinque anni, nella Casa di reclusione di Massa come psicologo penitenziario. Due realtà, d’impatto, molto diverse; ai tempi in cui andavo a Pisa il carcere era abbondantemente sovraffollato, circa 500 detenuti (adesso il numero so essersi notevolmente ridotto) e la situazione era abbastanza complessa. A Massa la realtà, al momento, si presenta migliore a mio avviso e credo pure sia comunque, come del resto a detta anche dell’esterno, un carcere discretamente funzionale e che offre una vasta gamma di possibilità interne, difficile da ritrovare in tanti degli altri istituti regionali e nazionali.

Come definiresti la devianza?
Cercando in qualche modo di darne una definizione la più personale possibile, in base pure alla mia esperienza, intendo per devianza un fenomeno di identificazione, un’identificazione che abbraccia ovviamente connotati e comportamenti (che restituiscono l’immagine che di noi si è scelto più o meno consapevolmente) che vanno a violare norme di massa convenzionali recando danno a cose o persone. Nasce tutto dal riconoscimento del bisogno, ciò che facciamo per raggiungerlo e come decidiamo di vivere semmai la frustrazione che prende lo spazio tra ciò che otteniamo e ciò che invece avremmo voluto: quello scarto è abitato dalle nostre “scelte”, i nostri meccanismi che poi si assodano prevalentemente nell’ordine dell’automatico. Dobbiamo considerare sì una biologia della devianza, non rischiando cioè di non dare il giusto peso a variabili genetiche, ma al contempo (così come nello sviluppo dell’individuo genetica e ambiente vanno di pari passo e pari peso presumibilmente) i fenomeni sociali e in questo la famiglia, i pari e via dicendo. Ci si identifica nel nostro personalissimo modo di affrontare la frustrazione, e talvolta, appunto, può essere un modo “partorito” fuori da riferimenti convenzionali, fuori da accorgimenti opportuni, fuori da etica elaborata e quindi digerita, fatta propria. La biologia poi fa il resto, oppure è l’ambiente appunto a prendere il sopravvento su una biologia mansueta.

Il ruolo dello psicologo nel carcere
Si cerca di esserci intanto, si cerca cioè di esistere anche per coloro che dal di fuori, se non per affetto o legami preesistenti, rischiano di essere lasciati rinchiusi e in balìa della frustrazione o ristrettezza. Per il resto il lavoro dello psicologo è quello di apportare la propria professionalità e sensibilità a tutte le figure che in concerto cercano di lavorare per lo svolgimento e l’evoluzione, più funzionalmente possibile, del provvedimento penale. Si cerca quindi di leggere al meglio le dinamiche intra e inter personali del detenuti e tra i detenuti stessi. Non è facile esserci con frequenza e regolarità; sappiamo quanto il lavoro dello psicologo si sorregga sulla fissità delle variabili del setting e il carcere, in un qualche senso, non può aiutare questo, non può garantire una frequenza, talvolta uno stesso luogo, degli orari prestabiliti ecc. In questo è il professionista stesso a modularsi alle esigenze disparate dei vari istituti cercando comunque di mantenere la sua peculiarità.

L'importanza dello studio della personalità del detenuto collegato al percorso formativo per il suo reinserimento sociale
Lo psicologo ha degli strumenti, grazie alla sua formazione, ed essendo poi uno specialista in un approccio psicoterapeutico ha pure un assodato modo di indagare il mondo interno assieme al soggetto. Questo dà, come accennato prima, un apporto considerevole in quella che poi è la ricerca del miglior percorso possibile all’interno della detenzione.

Che tipo di rapporto si instaura tra psicologo e detenuto?
Come in tutti i casi, può scoccare una scintilla importante che aiuta e spinge il processo di elaborazione, esplorazione e rivisitazione dei propri vissuti da parte del detenuto oppure può reggersi su un piano più formale e, talvolta, faticoso e difficilmente oltre il superficiale. Dipende. Dipende da tutte quelle variabili da cui possono dipendere i confronti umani. Nulla di diverso. Certo è che, per quello che posso dire in base alla mia esperienza, è più facile che scocchi una scintilla produttiva, intensa e profonda nei casi in cui aleggi nell’aria del confronto e nella consulenza una pena maggiore, un fatto più grave, una reclusione più lunga. Questo posso sentire di riconoscerlo. Per il resto, come sempre, ci sono pure quei casi dove la persona è realmente “nuova” nel contesto della devianza e del carcere e che quindi, anche se magari la pena può tenerlo dentro per non molto tempo, portano la persona a legarsi molto a figure satelliti dal dentro al fuori come lo psicologo o l’educatore cercando una sorta di maternage frequente e rassicurante. I più abituati a saltare da uno specialista all’altro, spesso coloro che sono caratterizzati ad esempio da problemi di droga (abuso, spaccio ecc..) sono coloro che rischiano invece di non sfruttare mai a pieno un confronto con lo specialista.

Vi è differenza tra lo studio della personalità tra detenuto italiano e straniero? Se si quali?
Da un lato sì, c’è differenza, per lo meno nell’atto di avvicinarsi al soggetto, in quella fase cioè dove si cerca di creare un’alleanza che aiuti il processo di osservazione ed esplorazione. Dall’altro mi sento di dire di no, l’osservazione della macchina umana ha bisogno di ancorarsi sempre su degli elementi assoluti che poco vengono viziati da contesti culturali.

I detenuti musulmani in carcere, visto il momento storico in cui viviamo, rende il tuo lavoro più complesso?
Lo rende forse più complesso in riferimento alla richiesta anche esterna. C’è più tensione e paura rispetto ad alcune culture, ad alcune religioni, tutto questo amplifica, come del resto accade proprio anche all’esterno di un istituto nel mondo in generale, l’attenzione, la preoccupazione. Il momento storico che viviamo impone una certa attenzione che può a volte incattivire i contesti del colloquio con una cultura in questo caso musulmana ma è ovvio che, dati statistici alla mano confermanti il carcere come luogo ‘primo’ di reclutamento di cellule terroristiche, l’attenzione non può che essere tenuta viva e vispa.

Secondo te quali soluzioni e mezzi sono necessari per una completa rieducazione dei soggetti deviati e se la crisi economica e la forte presenza di stranieri influenza il processo di risocializzazione...
E’ probabile che la forte presenza di stranieri renda il lavoro più complesso e bisognoso di accorgimenti, anche relazionali, attenti e guardinghi; la complessità cresce dove i bisogni si moltiplicano (più culture = più bisogni) e al contempo dove le risorse restano limitate. E’ probabile che all’interno del carcere occorrerebbero più figure mediatrici che abbiano la funzione di ridurre al minimo quella distanza tra le culture, tuttavia mi piace pensare che la convivenza crescente tra culture diverse aiuti in qualche modo ad assolutizzare l’esperienza della relazione umana, come all’esterno anche all’interno del carcere. E’ una sfida lo so, una sfida che se già implica forti complessità all’esterno possiamo immaginare all’interno di un luogo ristretto come il carcere. A mio avviso occorrono più tentativi di raggruppamento, più gruppi, i detenuti debbono avere più momenti possibili per imparare ed esplorare lo stare vicini e insieme sotto la guida e la supervisione di figure specializzate e facilitanti. Non è forse un’idea che sta bene per tutti i tipi di detenuti, ma lo è per veramente molti e per molti può essere d’aiuto. Un’ulteriore cosa che può essere incentivata nell’ambiente carcerario è la comunicazione ed il confronto tra le varie figure operative implicate, i medici, gli educatori, la direzione ma anche e soprattutto coloro che condividono quegli spazi gran parte delle giornate, in prima linea e a stretto contatto con i detenuti come gli agenti penitenziari. La loro testimonianza è preziosa e frutto del clima che si respira dentro alle sezioni. Anche per loro è importante avere uno spazio di condivisione, crescere in una cultura del genere e soprattutto non rischiare di identificarsi (già..l’identificazione) con il soggetto che deve far rispettare le regole bensì come una parte di un più grande ingranaggio che lavora per trattenere gli impeti devianti sì, ma anche per trasformarli con la relazione, per rinnovarli e che lavora cioè, come appunto l’intero ingranaggio, magari per rieducare e stimolare ad una vita altra.